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«Scusaci principessa». E fu bufera di P. Caldarola

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Era un sabato quel 30 agosto che avrebbe sconvolto l'opinione pubblica mondiale e che l'Unità raccontò «scandalosamente».

Verso mezzanotte partì dall’Hotel Ritz di Parigi su una Mercedes S280 la coppia più discussa del momento. Le immagini dei giorni successivi li inquadravano mentre attraversavano la porta girevole dell’albergo, lei Diana Spencer, fascinosissima principessa, abbandonata da Carlo d’Inghilterra per un antico e bruttino amore di gioventù e al centro di nuove relazioni contrastate e di iniziative benefiche mondiali, anche con madre Teresa di Calcutta, lui Dodi Al-Fayed, rampollo di una dinastia miliardaria insediata a Londra nel cuore del potere economico. Con loro c’era un ometto piccolo e rotondo che li seguiva ad un passo e si mise alla guida della vettura. L’auto scattò veloce, seguita da un codazzo di giornalisti e di paparazzi con i lampi di flash che rischiaravano a giorno la macchina, e c’è chi dirà che accecheranno anche il conducente.

- LA PRIMA PAGINA DI QUEL GIORNO

Sul Pont de l’Alma, sulla riva destra della Senna, alla fine di un tunnel l’auto sbandò, il rumore squarciò la notte, lady Diana perse la vita e con lei anche Dodi. Ormai è già domenica 31. Le agenzie di stampa battono la notizia, nei giornali inizia fin dalle prime ore del mattino la fibrillazione.
Quella domenica ero a casa con una febbre alta che mi perseguitava da una settimana e che preoccupava il mio cardiologo. Dal rullo mattutino del TG5 avevo visto quel che era accaduto e non mi sorprese la telefonata ad un ora inusitata del mattino di Piero Sansonetti, condirettore del giornale e mio fraterno amico. Non ricordo bene le frasi di quel colloquio, ricordo che Piero mi parlò a lungo della necessità che il giornale desse a quella storia lo stesso grande spazio che avrebbe avuto sugli altri giornali. Per anni era stata questa l’ossessione di chi lavorava, e soprattutto di chi dirigeva l’Unità: essere uguali agli altri, non più giornale di partito, se non nella proprietà. In verità la cronaca su l‘Unità aveva sempre avuto grande spazio anche con direttori membri della direzione del Pci. Ricordo con Alfredo Reichlin direttore le prime pagine sulla tragedia di Vermicino.

Detti il via libera a Piero. Devo confessare, dopo tanti anni, che non ricordo se Piero mi disse il titolo che aveva in testa.Il concetto che voleva esprimere sì. L’indomani i lettori dell’Unità trovarono a tutta pagina una frase che li sconvolse e che ci sospinse nella bufera. Sotto la testata che aveva raccontato migliaia di episodi di battaglie della sinistra c’era scritto: «Scusaci Principessa». Il senso era chiaro, almeno a noi. Lady Diana era stata vittima di un assedio mediatico che l’aveva costretta alla fuga, alla guida folle di un autista deciso a non farsi prendere dagli inseguitori e dai loro flash, allo schianto, alla morte.

Quel titolo, come è ovvio, sollevò un grande casino. Non so quante telefonate ricevetti di buon mattino. Sansonetti era intanto partito per le sue vacanze in Sardegna. Mentre mi rendevo conto che avrei affrontato la giornata più dura della mia vita, ma altre, peggiori verranno dopo, mi telefonò Pietro Spataro raccontandomi che il giornale era sommerso di messaggi di ogni tipo, pieni di insulti, di frasi di dissociazione, di richiesta imperativa di chiarimenti. La telefonata peggiore però me la fece Spataro quando in tarda mattinata mi comunicò che secondo le agenzie di stampa l’incidente mortale per lady Diana non era conseguenza di una fuga disperata dai reporter ma dell’ubriachezza dell’autista. Come sappiamo tuttora la tesi è discussa e tuttora c’è chi, al solito, è convinto che la verità sia più oscura, che c’entrino i servizi segreti e la cattivissima suocera-regina. Fatto sta che avevamo chiesto scusa mentre il racconto del giorno dopo si svolgeva attorno alla figura di questo maledetto autista con la mania del bere.

Situazione incresciosa? Di più. Tenete conto che poche settimane prima avevamo impostato una riforma grafica del giornale che aveva sollevato un dibattito acceso e che aveva anche incuriosito. Avevamo deciso di ridurre quasi a zero la presenza di foto, di fare un giornale tutto scritto, che faceva della sobrietà la sua cifra e che non avrebbe dedicato più di due pagine anche all’evento più clamoroso. La morte di lady Diana invece occupava tredici pagine del giornale, e con quel titolo, poi! Chiamai a fine mattinata Alberto Asor Rosa, che aveva ripreso a scrivere per noi e gli chiesi di fare l’editoriale ben sapendo che ci avrebbe attaccati. Io accompagnai il suo pezzo con un editoriale affiancato in cui davo spiegazioni, cercavo di tirarmi fuori da quel casino, difendevo l’ispirazione che ci aveva portato a ragionare soprattutto sull’invadenza dei media. Dopo tanti anni penso ancora che avevamo colto un fenomeno serio, quel rapporto distorto e pervasivo fra media e vita degli altri, anche potenti. Il giorno dopo quello «Scusaci Principessa» però l’effetto del titolo era più forte del tentativo di spiegarlo o almeno di giustificarlo.

Devo confessare che durante i miei anni di direzione de l’Unità me ne sono capitate di tutti i colori e non tutte me le sono cercate. Preferisco, con una dose di autoironia che sfiora il masochismo, ricordare questi episodi invece di tante altre pagine di storia ampiamente indagate. Questo giornale che è stata la mia casa per così tanto tempo e aveva, come tutte le famiglie, anche le sue storie intime e spesso terribili e buffe. Dovevo, ad esempio, ancora assumere la guida del giornale, Walter, infatti, era ancora formalmente direttore, quando ricevetti una mattina una telefonata che definire incazzata è dir poco di Francesco De Gregori. L’Unità aveva mandato in edicola il video del concertino che De Gregori e Antonello Venditti avevano fatto per sostenere Veltroni in campagna elettorale. Era stato un evento perché i due da tempo non si parlavano, credo di ricordare. Il video, per noi che eravamo diventati i maggiori produttori d’Italia!, era andato nelle edicole ma De Gregori non l’aveva autorizzato, né l’aveva fatto Venditti che tuttavia non protestò. Mi presi la lavata di testa, compresi che l’irritazione di Francesco nasceva anche dal timore che il suo editore musicale facesse un putiferio e la chiudemmo lì.

Qualche settimana dopo in edicola doveva andare «Novecento» di Bertolucci. Si prevedeva un grande successo. L’Unità andava forte con le cassette e mediocremente negli altri giorni. Tutti eravamo convinti che l’azienda si fosse risollevata, persino io che ero condirettore solo perché Walter voleva dar rilievo alla mia firma di editorialista politico, con Andrea Barbato dall’esterno che era la prima vera firma del giornale, ma sulla fattura del quotidiano non mettevo becco. Insomma si arrivò al giorno della cassetta, e quello steso giorno la federazione della stampa proclamò uno sciopero. L’amministratore delegato del giornale, Amato Mattia, mi comunicò che se avessimo perso il treno di Bertolucci saremmo andati in rovina e mi fece un quadro devastante dei conti e delle copie vendute. Chiesi al sindacato una deroga che non mi fu concessa.

Pensai allora di mandare in edicola la cassetta di «Novecento» accompagnata dalla testata de l’Unità sotto la quale non c’era però il notiziario del giorno ma la sceneggiatura del film. Qualcuno mi disse che il sindacato voleva discutere se espellermi o meno. Non mi cacciarono. So che da quel giorno capii che fra i miei compiti non c’era solo quello di dirigere un giornale di proprietà di un partito di ex comunisti per la prima volta al governo dopo i primi anni del dopoguerra, ma dovevo misurami con i conti in rosso ovvero in rossissimo, con un gruppo dirigente del partito che l’avrebbe chiuso volentieri, come poi fece, con una redazione che ribolliva, con una prospettiva che si annunciava terribile. E così, infatti fu.



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